Giro del mondo in musica – Storia di Nicoletta e Chris – Maggio 2020

Christofer e Nicoletta sono una coppia di musicisti straordinari e unici. Hanno viaggiato in tutti i continenti inseguendo l’ispirazione ed esibendosi in luoghi insoliti. Nella loro ultima avventura hanno raggiunto Shangai via terra. Il loro viaggio vi conquisterà.

6 - Storia Nico e Chris - pag. 1 nr. 22 Maggio 2020 6 - Storia Nico e Chris - pag.2

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Storia di Chiara – Dicembre 2017

La storia di Chiara Sala e di un viaggio

“Funga mkanda wa kiti chako wakati umekaa – allacciare le cinture di sicurezza quando si è seduti”. Questa la scritta sul sedile di fronte a me, sul piccolo aereo, che da Nairobi mi ha portato all’aeroporto del Kilimamgiaro. Viaggio da sola, sotto di me una distesa di suolo giallo con le tipiche Acacie e nel cuore una sola sensazione: sono in Africa! Un viaggio che porterò con me per sempre. Anzi più di un viaggio, un’esperienza, a tratti un’avventura, che ogni persona dovrebbe fare almeno una volta nella vita. Mi chiamo Chiara, sono nata e cresciuta a Monza ed era dal tempo delle elementari che sognavo l’Africa. Ho dovuto aspettare la maggiore età, un lavoro in un centro commerciale e l’associazione Onlus milanese Year Out per realizzare il mio progetto. Volevo qualcosa che mi avrebbe permesso di conoscere un’altra cultura, altri modi di vivere, e perché no, di aiutare gli altri, facendo qualcosa che mi rimanesse nella vita. Volevo un progetto da seguire integralmente. Tra quelli proposti dall’associazione c’è quello con il partner Ethical Encounters in terra masai nel nord est della Tanzania, vicino al confine con il Kenya. Il mio compito sarebbe stato quello di insegnare inglese nel piccolo pre-scuola del villaggio, dove i bimbi non hanno né banco né libri. Un’insegnante, Ana, insegna loro la lingua Swahili, ma è importante i piccoli possano entrare in contatto anche col mondo esterno. Era quello che volevo. Ho raccolto tutte le ferie possibili e il 03 Settembre sono atterrata all’Aeroporto Internazionale del Kilimangiaro, dove è venuto a prendermi Amani, uomo masai che è stato il mio referente e la mia ombra per tutto il tempo che sono stata in Tanzania. Siamo andati al villaggio che si trova a Monduli Juu, un distretto situato su un altipiano di 1800 metri. Arrivati sul posto, a parte un prete croato che vive su una collina a venti minuti di distanza, sono l’unica bianca. I Masai sono un popolo antico che ha mantenuto intatti usi e tradizioni, perlopiù dediti alla pastorizia e per fortuna ancora poco “corrotti” dalla globalizzazione. Sono molto curiosi e gentili e al mercato, accompagnata dall’onnipresente Amani, continuano a chiamarmi “Musungu! Musungu! Musungu Masai!” (Masai bianca). E’ strano a dirsi, ma la vita estremamente semplice del villaggio ha riempito le mie giornate con una tale intensità da non accorgermi del tempo che passava. Alle sette del mattino mi alzavo, ma il villaggio era già in piena attività dalle sei del mattino. Nel dormiveglia mi giungevano suoni e versi degli animali che per i Masai sono fonte di cibo e allo stesso tempo esseri viventi degni di rispetto. Caprette, galline, asini e vitelli gironzolano liberi insieme ai bimbi e fanno parte del quotidiano di ciascuno. Nel villaggio tutti fanno qualcosa, i bimbi più grandicelli danno una mano agli adulti portando gli animali al pascolo, i più piccoli restano al villaggio prendendosi cura dei fratellini e sorelline. Al villaggio ho avuto modo di giocare con Beni e Violet, due bimbi meravigliosi e mi sono presa cura di Sharon di cinque mesi, figlia di Amani. Nella tribù ho trovato una grande unione, sia tra le persone appartenenti allo stesso gruppo, sia con la natura circostante. Come se i Masai avessero un legame che, indipendentemente dalla famiglia in senso stretto, li tiene uniti come comunità. Sono poco interessati a ciò che accade nel mondo, se hanno un problema lo risolvono da soli, senza l’aiuto della polizia o dei medici. Gli anziani della tribù sono tenuti in grande considerazione da tutti e per le decisioni che riguardano la comunità sono sempre consultati e ascoltati. Nonostante i pro e i contro di ogni cultura, dovremmo imparare qualcosa sul senso di comunità dei Masai, in una società come la nostra dove l’individuo è al centro di tutto. E per tornare alla mia esperienza ed essere realistici,  la casa che mi hanno assegnato è una capanna. La più bella del villaggio, certo, ma pur sempre di legno e fango, con tetto in lamiera (le altre hanno il tetto di paglia). Non c’è elettricità, né acqua corrente e per bere compro le bottigliette al mercato. I Masai invece la prendono da delle pozze naturali nel terreno, dove l’acqua è torbida e terrosa. Per un mese mi sono lavata in un secchio. Amani nella sua capanna ha la bombola a gas, ma le altre sono piene di fumo perché per cucinare usano ancora i carboni. Ho fatto un po’ di tutto. Sono andata al mercato con i secchi di iuta pieni di mais e sono tornata con la farina. Ho selezionato i fagioli buoni da quelli cattivi, ho trasportato venti litri d’acqua sulla schiena, ho cucinato e tagliato verdure con le donne masai, ho lavato panni, fatto braccialetti, provato a mungere una mucca e ho assaggiato la canna da zucchero. Ho mangiato carne di capretto cotta al momento da un piatto comune in un posto per soli uomini, Amani non mi ha lasciato mai sola. Con lui ho fatto lunghe camminate, ho visto le scimmie e sono andata in motoretta nella Rift-Valley, una grande depressione geologica formatasi milioni di anni fa. Qui sembra che il tempo si sia fermato, ho visto i guerrieri Morani, protettori della comunità, con la lancia in mano e le donne e i bambini mi guardavano come se vedessero per la prima volta un bianco, e probabilmente era così. Dopo alcuni giorni ho iniziato l’esperienza a scuola con circa 30 bambini dai quattro ai sette anni. Per loro non è sempre facile raggiungere la scuola da soli. Può essere pericoloso cadere nelle spaccature del terreno durante le mattinate di nebbia o durante la stagione delle piogge. Per questo i fondi raccolti servono nella realizzazione di una scuola più vicina e accessibile. Ho scoperto in me una grande motivazione che non sospettavo di avere e insegnare mi è piaciuto e mi ha dato grandi soddisfazioni. Ho un ricordo particolarmente caro che mi farà compagnia in futuro. Da una capanna di legno, ho intravisto un focolare circondato da sette ciocchi di legno sui quali sedeva un’intera famiglia. La mamma cucinava in un grosso tegame e tutti intonavano una canzone dal sapore ancestrale che sembrava legasse quella famiglia ad antiche tradizioni e alla natura circostante. Ho alzato gli occhi e sopra di me la Via Lattea mi ha offerto il più bello e luminoso cielo stellato che abbia mai potuto vedere. Il mio viaggio ha seguito un itinerario fisico e spirituale che mi ha permesso di conoscere delle persone fantastiche che mi hanno insegnato tantissimo, sicuramente più di quanto ho dato loro. Spero che altra gente possa e voglia vivere questa meravigliosa esperienza. I Masai hanno bisogno di acqua potabile, di medicine, di istruzione e spero di poterli aiutare ancora. Oltre alla voglia e conferma di voler continuare a viaggiare, porterò con me il ricordo delle risate con le donne, le lunghe chiacchierate durante la cena, il tempo passato all’aria aperta e soprattutto la loro forza e la loro fierezza e quella vita semplice che riusciva comunque a riempire e dare un senso alle mie giornate.Storia di Chiara - Dicembre 2017

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Viaggio … un cammino.

Qual è la cosa più preziosa che ti regala un viaggio?

La consapevolezza di avere dei pregiudizi e la possibilità di poteresene liberare.

Ecco il motivo per cui val la pena di affrontarli, sempre!

Vicini e lontani; intimi o comunitari che siano.

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Storia di Margherita – Confidenze nr.10 – Marzo 2012

Mi chiamo Margherita, ho 59 anni e da un anno sono a casa dal lavoro. In pensione. Ho un gruzzoletto da parte per far fronte agli imprevisti che si potrebbero presentare e la pensione mensile mi permette di vivere bene; insomma dal punto di vista economico non mi manca niente.  Nei primi mesi era strano ricevere soldi restando a casa, ma alle cose buone ci si abitua presto. Pensavo sarebbe stato difficile non lavorare, separarmi dall’ufficio, mia casa per 40 anni, ed invece non mi è pesato affatto; stento persino a ricordare il volto del collega che mi ha reso la vita impossibile per cinque anni. Mi alzo presto al mattino, faccio colazione, curo il giardino, leggo, mangio e faccio la nonna nel pomeriggio. Veramente non sono propria la nonna di Marika, lei è la nipotina di mio fratello. La piccola lo sa e per distinguermi dagli altri nonni, mi chiama la “nonna Margherita del cuore”.  Tutto perfetto, insomma o quasi. Un piccolo cruccio ce l’ho! E’ un pensiero pigro e si insinua lento nella mia testa quando ho un attimo di ozio. E’ un tarlo leggero, di quelli di cui ci si vergogna un po’ e ci si imbarazza a raccontarlo. Riderebbero di me. Forse la mamma di Marika, la mia adorata Angela potrebbe capire, ma è sempre così presa, tra famiglia e lavoro, che non oso rubarle del tempo e dello spazio. Tra me e me, però lo confesso … vorrei sapere come sono proseguite le vite dei miei compagni di viaggio. Per recarmi a lavoro in città, per quarant’anni, ho utilizzato il treno. Ogni giorno, un’ora all’andata e un’ora al ritorno. E le persone che incontravo erano sempre le stesse. I visi, seppure in certi casi neanche ci si scambiava il saluto, sono sempre quelli ed io li guardavo intensamente, cercando di indovinare le storie che nascondevano. E vi posso assicurare che guardando attentamente una persona si può capire tante cose. Purtroppo con l’arrivo della pensione, alcune storie sono rimaste a metà. Ho lasciato in sospeso il “timido”, un ragazzino brufoloso con degli occhi verdi magnifici, e la “vanitosa”, una ragazza baciata dalla bellezza e già consapevole di questo. Lui ogni mattina, per cinque anni, l’ha guardata adorante e lei, di rimando, lo ha ignorato sdegnosa, ma negli ultimi tempi avevo visto degli avvicinamenti decisi di lui che mi avevano fatto ben sperare. Io facevo il tifo per lui e, quando riusciva a strapparle un sorriso, ero felice come una Pasqua. Poi, vorrei sapere se la signora che saliva due stazioni dopo la mia, ha ricevuto la conferma definitiva del contratto di infermiera. Si è lamentata per due anni del lavoro precario che le toccava fare, ma conoscendola un po’ si lamentava anche per il caldo, per il freddo, per il sole, per la pioggia, insomma per tutto. Secondo me quando usciva di casa, il marito e i figli tiravano un sospiro di sollievo, anche se lei non risparmiava loro critiche e lamenti fatti via cellulare, anche durante il viaggio. C’erano anche persone delle quali sapevo meno che però mi incuriosivano molto. Cercavo di ascoltare, di indagare con lo sguardo, di capire dai movimenti del viso gli stati d’animo, dalle espressioni assunte quando erano soprapensiero carpivo le emozioni. E mi mancano anche loro. Vorrei sapere se la ragazza di Brescia piange ancora per il marito rientrato in casa con l’odore di un’altra o se ride paga, con espressione beota, perché la sera precedente è stato suo il turno dell’amore; se al disperato uomo di Rovato sia mancata la madre malata di Alzheimer, che lui non riconosceva più nell’involucro vecchio e immemore nella quale la malattia aveva costretto quella che doveva essere stata una donna straordinariamente bella, almeno a  giudicare dalle foto che di tanto in tanto lui rimirava furtivo nel portafoglio; e poi mi mancano i ragazzi con i loro zaini e i pantaloni vista-sedere, mi chiedo se saranno ancora di moda o nel frattempo saranno stati sostituiti da altro, magari adesso vanno in giro con le salopette che coprono anche il volto ed io non lo so. Il viaggio in treno, le emozioni che vivevo da Brescia a Bergamo sono le uniche cose, le uniche, che mi mancano. Il viaggio era più importante della meta. Entrare nel vagone, lo stesso per anni, mi apriva le porte di una telenovela che si aggiornava quotidianamente. Con le ripetizioni solite, tante che mi rassicuravano e con i colpi di scena che ravvivano la mia giornata. E poi c’era la possibilità di incontri, nuovi!
Nella mia vita, che si è ripetuta per anni sempre nello stesso modo, la variabile era rappresentata dal tragitto per arrivare in ufficio e tornare a casa. E’ strano come i miei compagni di viaggio, dei quali non conosco, né conoscerò mai i nomi, sono quelli che mi hanno guardato e che a mia volta ho scrutato di più. Ah quanti ricordi legati alle occhiate!
Potrai parlare per ore dello “sguardo di rapina” che mi ha accompagnato per un anno da Grumello a Bergamo. Lui era bruno e corpulento, vestiva con una tuta da lavoro ed aveva grosse mani callose. Ho sognato tutti i giorni quelle mani. Saliva in treno e si posizionava davanti a me, si fermava e mi fissava con occhi di brace. All’inizio giravo la testa sdegnosa di attenzioni non richieste, ma l’insistenza, la brama così manifesta erano impossibili da ignorare. Non è che due occhi neri, lucidi, incorniciati da ciglia vellutate si trovano così! Di giorno in giorno, aspettavo sempre con più ansia la fermata galeotta. Ed insieme all’ansia, cresceva il tempo trascorso a casa a prepararmi per uscire. Tanto che talvolta correvo il rischio di perdere il treno. Allora ero sposata con Alberto, ma la nostra relazione era stanca e vuota da anni. Figli non ne erano mai arrivati e, dopo, la passione iniziale eravamo quasi due estranei che vivevano sotto lo stesso tetto. Il divorzio è arrivato qualche anno dopo. Una sera avevo anche provato ad accennare a mio marito che in treno un uomo mi fissava. Mi aveva fissato anche lui, ma il suo sguardo tradiva una certa inadeguatezza a comprendere le mie parole. Il mio mondo “viaggiante” era una dimensione nella quale vivevo solo io, novella Alice nel treno delle meraviglie, ed allora avevo lasciato perdere, assolvendomi da sola per un peccato che rimaneva solo nelle intenzioni, senza diventare gesto concreto.Quell’anno trascorse in fretta e una mattina il mio lui con la tuta blu mi salutò dicendo che cambiava lavoro e itinerario. Purtroppo i nostri tempi non erano coincisi, lui era andato via prima che il mio matrimonio fosse finito. Ed io sono stata sempre troppo timida e pudica, forse anche un po’ codarda, per imbastire una storia extraconiugale. Era strano, noi che non avevamo scambiato mai una parola fino a quel momento, ci salutammo come se avessimo condiviso giorni, ed anche notti, di chiacchiere. Scendendo mi augurò cose belle e disse che ci saremmo rivisti. Chissà adesso dov’è e cosa fa? Magari, di tanto in tanto, riprende il treno. Magari mi cerca con lo sguardo tra i mille occhi che popolano il vagone di mezzo. Magari un giorno mi sveglio presto e faccio un giro in treno.Chissà che non potremmo ritrovarci … Adesso sarebbe il momento giusto!

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