Dov’è sempre CASA – Storia di Laura De Carlo e degli AMICI di Hauycan – Confidenze nr. 3 – Gennaio 2021

1 - Storia di Laura De Carlo - Confidenze nr. 3

Ci sono parole che in alcune lingue hanno un senso ed in altre cambiano significato. La parola “compassione” è una di queste. Nelle lingue latine, quindi anche in italiano, viene associata alla pietà, alla pena che si prova per gli altri, mentre in tedesco o in polacco il termine viene utilizzato per definire la partecipazione ai sentimenti degli altri, siano essi di dolore, di gioia o di felicità. L’autore Milan Kundera nel suo libro più conosciuto descriveva la compassione come la telepatia delle emozioni. Ecco, io non so se è proprio quello che mi è capitato nella vita, ma ho avuto la gioia e il fardello allo stesso tempo di sperimentare la “con-passione”, di sentire la gioia e i dolori delle altre persone. Persone lontanissime fisicamente da me, eppure percepite vicine come se vivessero d’altra parte del pianerottolo. Adesso, vi racconto. Mi chiamo Laura e vivo a Roma. Circa venticinque anni fa, per quelle strane analogie che talvolta arrivano nella vita, ho conosciuto Huaycan. È iniziato tutto per caso. Alessandra, un’amica di un’amica che era in viaggio in Perù, aveva dato la disponibilità a fare una consegna ad un prete in una sperduta periferia della capitale. Arrivata a Huaycan, la situazione di quel lembo di montagna, arso dal sole, senza nessuna fonte d’acqua e nel completo abbandono da parte di tutta la società, l’ha così colpita che non ha proseguito il suo viaggio e vi si è fermata per un anno. La situazione politica e sociale del Perù negli anni Novanta era critica; il paese era in balia di continui attacchi terroristici che laceravano il paese e creavano caos e terrore nella popolazione. Ad Huaycan continuavano ad arrivare intere famiglie di contadini scappate dalle campagne e dalle montagne per sfuggire alla guerriglia scatenata dal gruppo paramilitare di Sendero Luminoso. La capitale in quegli anni non era in grado di accogliere tutti i profughi e man a mano che le persone si avvicinavano a Lima, cercavano di stabilirsi dove meglio potevano. Huaycan è nata così. L’ammasso di contadini che arrivavano da diverse zone del paese, che spesso non parlavano lo stesso dialetto e non erano in grado di comprendersi, l’assoluta mancanza di qualsiasi mezzo di sostentamento e di prospettiva futura, l’inospitalità del luogo hanno fatto sì che il disagio e il degrado sociale diventasse quotidiano. Nell’anno in cui la nostra amica è rimasta lì, ha costruito nel terreno di una parrocchia un piccolo centro di accoglienza dove sono state accolte alcune mamme single e il loro bambini. La società contadina peruviana è molto maschilista e, ancor oggi, seppur in maniera meno forte rispetto a trent’anni fa, le donne quando raggiungono una “certa” età vengono abbandonate dai mariti e “sostituite” con altre più giovani. Anche i bambini sono tenuti in scarsa considerazione, in quanto non producono reddito e risultano di peso alle famiglie che devono mantenerli. Come sostenere questa piccola realtà? Alessandra ha chiesto aiuto ai suoi contatti in Italia e ci siamo attivati. In quel periodo eravamo un gruppo di amici, con tempo a disposizione e tanta voglia di fare qualcosa di buono. Attraverso un tam-tam, abbiamo mosso tutti i canali a nostra diposizione. Abbiamo fatto e venduto marmellate, promosso spettacoli teatrali e collette, organizzato tornei di tennis e raccolte fondi. Tutto quanto ci è venuto in mente, l’abbiamo fatto e i risultati sono arrivati. Il centro accoglienza è diventato una realtà solida e abbiamo fondato l’associazione “Amici di Huaycan onlus” per sostenere economicamente dall’Italia quel presidio lontano. Io ne faccio parte sin dalla prima ora e sono la presidente dell’associazione. Col passare degli anni, il centro è diventato un punto di riferimento per gli abitanti di Huaycan e alcune delle donne che per prime sono state accolte e aiutate, sono diventate esse stesse operatrici da noi. Uno dei primi problemi che ci siamo trovati ad affrontare era quello della salute. I bambini morivano a decine in età scolare e le malattie avevano la meglio, complici il clima insalubre, molta polvere e la mancanza d’acqua. Abbiamo promosso delle campagne di prevenzione e, con molto fierezza, vi dico che finalmente dal 2007 tra i bambini che seguiamo non ci sono stati decessi per la tubercolosi. Forse dall’Italia questa informazione può sembrare banale, noi consideriamo la TBC non più un problema sanitario da decenni, eppure a Huaycan provoca ancora oggi vittime, specie tra i più piccoli. Un altro progetto di cui siamo fieri è quello nato per aiutare le madri “solteras” . La nostra “Casita” è un centro diurno che accoglie i bambini di genitori in difficoltà (in gran parte mamme single), in modo che possano andare a lavorare in tranquillità. Ai bambini offriamo doposcuola, laboratori, spazi per il gioco e la mensa. L’approccio che utilizziamo è di tipo cooperativo, cioè le famiglie sono chiamate a collaborare  e pagano una piccolissima quota, simbolica, che però permette loro di sentire che stanno usufruendo di un servizio e non stanno ricevendo la carità. Oggi seguiamo circa sessanta bambini dai due ai sedici anni e diamo una mano anche a tutte le loro famiglie e alla comunità di cui fanno parte. Per fare un esempio, un piccolo intervento di microcredito, mirato, può svoltare la vita di un’intera famiglia e offrire una possibilità concreta e soprattutto speranza di futuro. Nei primi dieci anni, il mio aiuto alla comunità di Huaycan lo avevo dato dall’Italia, ma non ero mai andata in Perù. Poi ho avuto una crisi. Erano anni che seguivo la parte amministrativa e di raccolti fondi e iniziavo a sentire che il mio slancio si stava esaurendo. Allora prima di lasciare l’associazione, ho deciso di partire. Volevo andare a vedere sul posto cosa avevamo fatto di buono. Ho organizzato la famiglia, fatto tutte le raccomandazioni possibili a nonna e figli e sono andata. Da Lima, in taxi ho raggiunto la periferia. Quello che ho trovato, non è semplice da descrivere. Intorno a me la povertà era ovunque. L’ho già detto, lo so, ma è difficile immaginare con quanto poco le persone lì possano vivere. E poi c’era la situazione di degrado nella quale versavano certe famiglie che era davvero insostenibile. Quando interi nuclei familiari vivono ammassati in una casupola, anche volante ( sì, esistono baracche che si spostano da un terreno all’altro a secondo del vento e dell’ospitalità che viene offerta) allora la promiscuità può portare situazioni insostenibili e ad abusi. Queste realtà e tanti paradossi convivono a Huaycan. Eppure, allo stesso tempo, le donne e i bambini di un tempo, ormai giovani adulti, che erano cresciuti alla Casita erano grati e soprattutto felici di esser riusciti a “salvarsi” da una situazione che offriva loro poco o niente per affrontare la vita. Non portavano doni per ringraziarmi, ma mi facevano vedere quello che erano riusciti a raggiungere: un lavoro dignitoso, una giovane famiglia, le feste di compleanno che organizzano per i loro figli, di cui vanno fieri. Ci tenevano a mostrarmi che erano madri e padri affettuosi e rispettosi. Ecco, in quel viaggio è scattato dentro di me qualcosa, la “con-passione” che vi dicevo. Ho sentito la gioia e il dolore di queste persone ed ho toccato con mano cosa realmente di può fare. Sono tornate altre volte in Perù e trovo il tempo e le risorse per andare avanti con l’associazione.  Questo anno per Natale  stiamo raccogliendo fondi per stare ancora più vicino ai bambini di Huaycan, dove l’emergenza sanitaria ha inasprito il divario sociale e aumentato le difficoltà, soprattutto nell’accesso all’istruzione. Immaginate come funziona la didattica a distanza dove non arriva l’elettricità? Sul nostro sito www.amicidihuaycan.it potete trovare tutte le informazioni e sono a disposizione di tutti per qualsiasi indicazione. Quando penso a quanto c’è da fare per i bambini di Huaycan un po’ mi scoraggio, ma poi penso alle parole che sono il nostro motto “Porte aperte per chi bussa”, e capisco che la porta della Casita deve restare aperta, e vado avanti. Ancora.

 

 

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Storia di Chiara – Dicembre 2017

La storia di Chiara Sala e di un viaggio

“Funga mkanda wa kiti chako wakati umekaa – allacciare le cinture di sicurezza quando si è seduti”. Questa la scritta sul sedile di fronte a me, sul piccolo aereo, che da Nairobi mi ha portato all’aeroporto del Kilimamgiaro. Viaggio da sola, sotto di me una distesa di suolo giallo con le tipiche Acacie e nel cuore una sola sensazione: sono in Africa! Un viaggio che porterò con me per sempre. Anzi più di un viaggio, un’esperienza, a tratti un’avventura, che ogni persona dovrebbe fare almeno una volta nella vita. Mi chiamo Chiara, sono nata e cresciuta a Monza ed era dal tempo delle elementari che sognavo l’Africa. Ho dovuto aspettare la maggiore età, un lavoro in un centro commerciale e l’associazione Onlus milanese Year Out per realizzare il mio progetto. Volevo qualcosa che mi avrebbe permesso di conoscere un’altra cultura, altri modi di vivere, e perché no, di aiutare gli altri, facendo qualcosa che mi rimanesse nella vita. Volevo un progetto da seguire integralmente. Tra quelli proposti dall’associazione c’è quello con il partner Ethical Encounters in terra masai nel nord est della Tanzania, vicino al confine con il Kenya. Il mio compito sarebbe stato quello di insegnare inglese nel piccolo pre-scuola del villaggio, dove i bimbi non hanno né banco né libri. Un’insegnante, Ana, insegna loro la lingua Swahili, ma è importante i piccoli possano entrare in contatto anche col mondo esterno. Era quello che volevo. Ho raccolto tutte le ferie possibili e il 03 Settembre sono atterrata all’Aeroporto Internazionale del Kilimangiaro, dove è venuto a prendermi Amani, uomo masai che è stato il mio referente e la mia ombra per tutto il tempo che sono stata in Tanzania. Siamo andati al villaggio che si trova a Monduli Juu, un distretto situato su un altipiano di 1800 metri. Arrivati sul posto, a parte un prete croato che vive su una collina a venti minuti di distanza, sono l’unica bianca. I Masai sono un popolo antico che ha mantenuto intatti usi e tradizioni, perlopiù dediti alla pastorizia e per fortuna ancora poco “corrotti” dalla globalizzazione. Sono molto curiosi e gentili e al mercato, accompagnata dall’onnipresente Amani, continuano a chiamarmi “Musungu! Musungu! Musungu Masai!” (Masai bianca). E’ strano a dirsi, ma la vita estremamente semplice del villaggio ha riempito le mie giornate con una tale intensità da non accorgermi del tempo che passava. Alle sette del mattino mi alzavo, ma il villaggio era già in piena attività dalle sei del mattino. Nel dormiveglia mi giungevano suoni e versi degli animali che per i Masai sono fonte di cibo e allo stesso tempo esseri viventi degni di rispetto. Caprette, galline, asini e vitelli gironzolano liberi insieme ai bimbi e fanno parte del quotidiano di ciascuno. Nel villaggio tutti fanno qualcosa, i bimbi più grandicelli danno una mano agli adulti portando gli animali al pascolo, i più piccoli restano al villaggio prendendosi cura dei fratellini e sorelline. Al villaggio ho avuto modo di giocare con Beni e Violet, due bimbi meravigliosi e mi sono presa cura di Sharon di cinque mesi, figlia di Amani. Nella tribù ho trovato una grande unione, sia tra le persone appartenenti allo stesso gruppo, sia con la natura circostante. Come se i Masai avessero un legame che, indipendentemente dalla famiglia in senso stretto, li tiene uniti come comunità. Sono poco interessati a ciò che accade nel mondo, se hanno un problema lo risolvono da soli, senza l’aiuto della polizia o dei medici. Gli anziani della tribù sono tenuti in grande considerazione da tutti e per le decisioni che riguardano la comunità sono sempre consultati e ascoltati. Nonostante i pro e i contro di ogni cultura, dovremmo imparare qualcosa sul senso di comunità dei Masai, in una società come la nostra dove l’individuo è al centro di tutto. E per tornare alla mia esperienza ed essere realistici,  la casa che mi hanno assegnato è una capanna. La più bella del villaggio, certo, ma pur sempre di legno e fango, con tetto in lamiera (le altre hanno il tetto di paglia). Non c’è elettricità, né acqua corrente e per bere compro le bottigliette al mercato. I Masai invece la prendono da delle pozze naturali nel terreno, dove l’acqua è torbida e terrosa. Per un mese mi sono lavata in un secchio. Amani nella sua capanna ha la bombola a gas, ma le altre sono piene di fumo perché per cucinare usano ancora i carboni. Ho fatto un po’ di tutto. Sono andata al mercato con i secchi di iuta pieni di mais e sono tornata con la farina. Ho selezionato i fagioli buoni da quelli cattivi, ho trasportato venti litri d’acqua sulla schiena, ho cucinato e tagliato verdure con le donne masai, ho lavato panni, fatto braccialetti, provato a mungere una mucca e ho assaggiato la canna da zucchero. Ho mangiato carne di capretto cotta al momento da un piatto comune in un posto per soli uomini, Amani non mi ha lasciato mai sola. Con lui ho fatto lunghe camminate, ho visto le scimmie e sono andata in motoretta nella Rift-Valley, una grande depressione geologica formatasi milioni di anni fa. Qui sembra che il tempo si sia fermato, ho visto i guerrieri Morani, protettori della comunità, con la lancia in mano e le donne e i bambini mi guardavano come se vedessero per la prima volta un bianco, e probabilmente era così. Dopo alcuni giorni ho iniziato l’esperienza a scuola con circa 30 bambini dai quattro ai sette anni. Per loro non è sempre facile raggiungere la scuola da soli. Può essere pericoloso cadere nelle spaccature del terreno durante le mattinate di nebbia o durante la stagione delle piogge. Per questo i fondi raccolti servono nella realizzazione di una scuola più vicina e accessibile. Ho scoperto in me una grande motivazione che non sospettavo di avere e insegnare mi è piaciuto e mi ha dato grandi soddisfazioni. Ho un ricordo particolarmente caro che mi farà compagnia in futuro. Da una capanna di legno, ho intravisto un focolare circondato da sette ciocchi di legno sui quali sedeva un’intera famiglia. La mamma cucinava in un grosso tegame e tutti intonavano una canzone dal sapore ancestrale che sembrava legasse quella famiglia ad antiche tradizioni e alla natura circostante. Ho alzato gli occhi e sopra di me la Via Lattea mi ha offerto il più bello e luminoso cielo stellato che abbia mai potuto vedere. Il mio viaggio ha seguito un itinerario fisico e spirituale che mi ha permesso di conoscere delle persone fantastiche che mi hanno insegnato tantissimo, sicuramente più di quanto ho dato loro. Spero che altra gente possa e voglia vivere questa meravigliosa esperienza. I Masai hanno bisogno di acqua potabile, di medicine, di istruzione e spero di poterli aiutare ancora. Oltre alla voglia e conferma di voler continuare a viaggiare, porterò con me il ricordo delle risate con le donne, le lunghe chiacchierate durante la cena, il tempo passato all’aria aperta e soprattutto la loro forza e la loro fierezza e quella vita semplice che riusciva comunque a riempire e dare un senso alle mie giornate.Storia di Chiara - Dicembre 2017

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