Progetto Invisibili 2021: C’ero anch’io su quel treno di Giovanni Rinaldi

La guerra. Quella vera. Quella che porta la morte, la fame, la disperazione. Quella che lascia annichiliti, annientati. La seconda guerra mondiale che ha devastato l’Europa è stato questo. E nonostante la nostra percezione sembri relegare questo evento lontano nella storia, i fatti risalgono a circa 70 anni fa. Tante persone che l’hanno vissuta sulla proprio pelle sono oggi nostri nonni e a saperli ascoltare avrebbero tanto da raccontare.

Giovanni Rinaldi l’ha fatto. Ha iniziato venti anni fa a porgere orecchio e attenzione alle persone, proprio in un tempo dove l’interesse di tutti iniziava a essere calamitato sugli schermi dei cellulari piuttosto che sulle facce della gente.

Con la tempra e il talento dello storico, ha riscostruito tassello dopo tassello la vicenda dei “treni della felicità” , un movimento sociale che ha percorso tutta la nostra penisola. Partito dall’idea di Teresa Noce a Milano e poi presa in prestito dalla donne dell’UDI, Unione Donne italiane, si diffonde in tutta Italia. I bambini delle zone più martoriate dalla guerra o dalla grave crisi economica e sociale che ne è derivata partono e sono ospitati da famiglie “accoglienti” che per qualche tempo riescono a dare loro un tetto caldo, da mangiare in maniera costante e anche istruzione dove possibile.

Il partito Comunista, anzi per dirla meglio, le DONNE del Partito si spesero in un’impresa che anche vista con gli occhi odierni ha del portento, vi lascio immaginare cosa sia potuto essere nell’immediato dopoguerra. Eppure ci sono riuscite e questa impresa ha dato una visione di futuro a migliaia di bambini che speranze ne avevano conosciute veramente poche. La smobilitazione del nostro paese è passata anche attraverso questa impresa e credo sia cosa non da poco.
Poi trascorsi pochi anni dal 1945 e con l’inizio di sembianze di normalità per l’Italia, dei “treni dei bambini” non si parlò più. La polvere iniziò a coprire i pudori di chi fu accolto e strappato dalla miseria e di coloro che accolsero con solidarietà e spirito di fratellanza. Il tempo fece il resto.

La caparbietà di Giovanni unita alla pazienza di tessere insieme notizie, testimonianze sparse, lavori e ricerche solitarie ha fatto sì che persone che avevano vissuto questa esperienza potessero ritrovarsi, ringraziarsi e ancora una volta abbracciarsi.

Le loro testimonianze sono parte della storia del nostro paese e nel libro troverete voci e racconti di vita emozionanti e teneri, feroci e intensi.

E’ da leggere il libro di Giovanni per tanti motivi, ma soprattutto perché apre una finestra su persone che fecero del bene ad altri semplicemente perché era giusto farlo e perché credevano in un ideale che sentivano parte fondante della loro vita che era quello della “comunità aperta che condivide tutto, dove ciascuno può essere e dare il meglio per il bene comune“.
E’ un’utopia?
Forse. Eppure leggendo il libro di Giovanni si comprende che tutto ciò, senza grande rumore, è già avvenuto.
E se è già successo, accadrà di nuovo e accade anche oggi. In silenzio migliaia di persone fanno del bene agli altri, ospitano, danno lavoro o semplicemente offrono sorrisi e ascolto. Solidarietà e unione tra persone non sono utopie, sono modi di essere.

Buona lettura, anzi buona immersione nella bella Italia che Giovanni Rinaldi ha saputo scoprire e descrivere. Un saggio, il suo, più bello e emozionante di un romanzo, la realtà più sorprendente di qualsiasi fiction.

Qui a questo link potete rivedere l’incontro con l’autore del 30 Settembre 2021. Non ve lo perdete, Giovanni è anche un grande conversatore.

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Libro: Il treno dei bambini di Viola Ardone

Un romanzo intenso e coinvolgente con una seconda parte strepitosa.

I treni della felicità furono un’iniziativa di solidarietà nata nel 1946 da un’intuizione di Teresa Noce, battagliera dirigente comunista e partigiana milanese rientrata dal campo di Ravensbrük. Milano era una città affamata e distrutta dai bombardamenti, Teresa Noce con l’aiuto di quello che restava dell’Unione Donne,  ottenne che diversi bambini milanese venissero ospitati da famiglie campagnole,per lo più della provincia di Reggio Emilia che si fossero rese disponibili.  In questo modo, seppur lontani dagli affetti familiari, ai bambini perlomeno il cibo per l’inverno sarebbe stato garantito. L’operazione ebbe così tanto successo che l’iniziativa si estese anche ai bambini del Sud e fino a metà degli anni ’50 circa 70.000 bambini vennero ospitati, curati e mandati a scuola grazie a tante famiglie di comunisti che misero a disposizione quello che avevano per SOLIDARIETÀ. (Link per ulteriori info www.anpi.it/articoli/636/1946-i-bimbi-dei-treni-della-felicita)

Il libro di Viola Ardone ripercorre questa toria semisconosciuta e dimenticata della nostra Italia migliore e, attraverso Amerigo Speranza, un bambino di 7 anni, ci accompagna su un treno che parte da Napoli e arriva a Modena.

La voce di Amerigo, scugnizzo napoletano che ha alle spalle una guerra, bombardamenti, lutti e abbandono è delicata e spudorata allo stesso tempo.  Lo si ama subito Amerigo.  Il candore e la furbizia non lo lasciano mai, gli occorrono per sopravvivere in un vicolo di Napoli dal quale non si vede granché di quello che c’è fuori e dove anche i sogni sono inutili perché tanto anche se si avverano non è nei bassi di Napoli che ciò accade. Eppure nonostante una realtà durissima, Amerigo sa cos’è l’amore perché a modo suo la madre Antonietta lo difende e lo ama con tutta se stessa. Questo è il motivo per cui accetta l’invito dei comunisti e lo fa salire su quel treno. Amerigo arriverà a Modena e incontrerà i suoi sogni e non se ne distacchera’ più.

Non racconto altro, non è necessario. Dico solo che Amerigo adulto, la seconda parte del libro, mi ha profondamente commosso. Mirabile prova di letteratura, la seconda parte, per me sfiora la perfezione per un romanzo.

Ho solo due crucci sulla prima parte;

1. l’autrice offre un’immagine quasi “perfetta” della famiglia modenese che ospita Amerigo. Siamo nel primissimo dopoguerra e c’è troppo cibo in quella casa; in quelle campagne la guerra civile per la liberazione era stata combattuta metro per metro e aveva lasciato divisioni e ferite che certamente non rimargirarono da un giorno all’altro. L’autrice non è riuscita a cogliere il contesto politico e sociale entro i quali quella ospitalità è avvenuta. Troppa dolce la descrizione della famiglia e della società che accoglie i bambini.  Forse l’intento non era quello di una disamina della situazione della provincia emiliana nel primissimo dopoguerra, ma ignorare del tutto quel momento storico non offre una dimensione importante per comprendere cosa sia stato il fenomeno dei treni della felicità.  Anche il sommo sforzo che quelle famiglie compirono in un momento drammatico dell’Italia in nome di un ideale, di una valore condiviso da quasi tutti. Mi dispiace perché se Viola Ardone avesse fatto questo ulteriore sforzo il suo romanzo sarebbe stato perfetto.

2 – La dolcezza con la quale viene dipinta la famiglia che ospita il bambino, talvolta si riverbera anche in qualche pensiero del piccolo Amerigo.  Ed anche qui il romanzo sfugge un po’ all’autrice che per eccesso di attenzione verso il suo protagonista perde quella linearità necessaria che aiuta a non superare il limite oltre il quale la storia vira verso il barocco delle descrizioni.

 

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