Mostra Rubens – Palazzo Reale Milano

Pieter Paul Rubens

Una mostra a Palazzo Reale di Milano è un evento. Sempre.
E così è anche per Rubens che è approdato nel salotto buono della cultura milanese. Mostra osannata da stampa e affollatissima di visitatori. Rubens si conosce poco in Italia, perché ha lavorato molto all’estero e perché gli artisti e geni nostrani tra fine 500 e inizio 600 erano veramente tanti e non v’era necessità di rivolgersi altrove.
Anzi gli altri venivano da noi. Proprio come ha fatto Rubens nel soggiorno italiano durato quasi 10 anni tra le nelle maggiori città italiane di allora: Venezia, Mantova e Roma.
Resta folgorato dalle opere veneziane di Tintoretto, Tiziano e Veronese. A Roma conosce le  opere di Michelangelo, Raffaello e Caravaggio. E poi Bernini e tanti altri.
E si vede!
Tutte le sue opere risentiranno negli anni dell’influenza italiana, della luce soffusa o spinario_galleria_estense_modena1diffusa, dei corpi plastici o scolpiti, della classicità e degli eroi, fino alle figure sacre e alla rappresentazione della simbologia .
Se questa mostra farà conoscere Rubens in Italia non so.
Secondo me i ostri artisti erano superiori per stile, pennello ed ispirazione, quando non vero genio.
Però vedere che siamo fonte di ispirazione così profonda fa bene al nostro ego italiano.
E questo è il primo motivo per cui vale la pena visitare la mostra.
Il secondo, forse inconsapevole da parte dei curatori, è la presenza di scultura classiche e cinquecentesche bellissime. Secondo me molto più belle di molte delle tele presenti.
Cito solo tra le altre: Uno studio del viso di Santa Teresa del Bernini – visibile ad altezza normale – e un bambino che si libera il piede da una spina, copia di un classico greco.
SOLO  questa opera vale il prezzo del biglietto.

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Mostra Palazzo Reale – Enrico Baj “Funerale di Pinelli”

 

Milano invasa dall’aria calda … così come Roma o Venezia lo sono di turisti. E in una pausa, calda e carnale, decido di andare nascondermi dall’invasione di afa e di odori, nel Palazzo Reale, accanto al Duomo.

Le locandine invitano, gratuitamente, alla mostra sugli anni ’70 che il Comune di Milano ha allestito nelle sale di Palazzo Reale. Rispondo all’invito e percorro le stanze dove mi assale un freddo intenso, non dovuto all’aria condizionata gelida, ma alle foto in bianco e nero che sembrano dichiarare la mancanza di colori che ha segnato gli anni di piombo a Milano e in Italia.
Talvolta degli sprazzi di rosso o grigio acceso, penso dovute ad eccedenze di rotative.
Arrabbiati, sdegnati, urlanti eppure sempre insieme, folle di ragazzi e ragazze, perlopiù giovani, affolano le pareti delle sale. Collettivi e bandiere rosse, pietre e manganelli. Tutto appesa alle pareti di stanze vuote. Sono sola.
E penso che questo ci hanno lasciato gli anni ’70, una grande solitudine.
Un senso di imcompiuto che mi avvolge e mi trascina fino all’ingresso della Sala delle Cariatidi. BUIA.
La vista si orienta e focalizza la luce nel fondo della sala. 30, 40 metri da percorrere e a lato, illuminate dal basso, statue, per la maggior parte, antromorfe che gridano silenziosamente il loro diritto ad un possente restauro. Sensazione di antro di inferi.
E la vista si riprende ciò che è suo e si adegua catturando per primi i flash rossi e verdi degli automi poliziotti. E fisso con paura gli occhi a forma di rotella, di ingranaggio. Occhi senza vita. Senza cervello. Senza cuore.
Nel mezzo, la figura di Pinelli, che come un novello cittadino di Guernica, cade. A testa in giù. E muore.
Allora Enrico Baj, magistrale autore dell’opera, affianca a colui che cade un insieme di figure, sgomente e attonite. Umane. Persone a destra. Automi a sinistra. E giù, piangenti, le vittime più vittime dell’innocente. Sole e divise, due bimbe ed una moglie piangono straziate la perdita del loro papà e marito.
La potenza di questo messaggio, l’unico che arriva, oggi in quest’epoca di individualismo, mi annienta e nell’immensa sala, con un guardiano seduto all’altro capo della stanza ed intento a giocare con lo smartphone, mi ritrovo a piangere al funerale di un uomo che non ho neanche conosciuto.

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