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La storia vera più apprezzata dalle lettrici questa settimana è “Natalia” di Giovanna Brunitto, pubblicata sul n. 4 di Confidenze.
http://www.confidenze.com/cuore/natalia/
“Ci vuole più coraggio e amore a lasciare andare un figlio che a tenerselo sempre con sé.” La mia storia è racchiusa in questa frase. Ogni mattina e ogni sera me la ripeto ad alta voce guardandomi allo specchio e cerco tra le lacrime il mio viso nello specchio. Sono Natalia, sono sempre io, sono uguale a prima eppure tutto è cambiato. Non riesco a capire come la mia faccia possa essere sempre la stessa dopo quello che è accaduto. Ma forse questa è la punizione che mi tocca per non essere stata in grado di trovare una strada che mi permettesse di tenere con me la mia bambina. Resto giovane e attraente all’esterno mentre dentro sono vecchia e brutta e con un pezzo di vita definitivamente morto che nessuno al mondo mi ridarà più. Perché quando ho deciso di rinunciare a mia figlia per darle la possibilità di essere adottata da una famiglia vera, sapevo che non sarei potuta più tornare indietro. Non auguro a nessuno mai di dover fare una scelta simile. Perché non è un dolore spiegabile a parole. È come morire però restando in vita. Per gli altri tutto prosegue normalmente e invece, per me, la vita si è fermata a quel giorno. Io ogni mattina mi sveglio e prima di rendermi conto dove sono, rivivo la mia storia. Sono nata in Romania, in un piccolo paesino vicino al confine bulgaro. I miei genitori erano contadini, eravamo poveri ma avevamo di che mangiare. Quando ho compiuto sedici anni, un mio cugino mi ha invitato a seguirlo in Italia per lavorare e vivere con lui. A me l’Italia pareva un sogno, vedevo le immagini scintillanti alla televisione delle città e delle vetrine e restavo abbagliata. Siamo partiti poco dopo. Per due anni abbiamo vissuto in un piccolo appartamento di Bergamo e abbiamo lavorato. Io facevo le pulizie e lui il fabbro. A modo nostro, ci siamo voluti bene. Poi è arrivata la crisi e lui ha perso il lavoro ed è iniziato un periodo nerissimo. Constantin, questo il suo nome, ha iniziato a bere sempre di più ed è diventato violento. Solo con il mio lavoro mantenersi entrambi era impossibile. È stato in quel periodo che ho scoperto di essere incinta. Non l’ho detto subito a Constantin. Speravo dentro di me che la situazione migliorasse e che trovasse un lavoro. Ma così non è stato. Quando la pancia ha iniziato a vedersi, abbiamo litigato violentemente ma io quel bambino lo volevo e gliel’ho urlato con tutte le mie forze. Il giorno dopo Constantin se n’è andato lasciandomi sola e con i debiti da onorare. Mi sono fatta forza e su suggerimento della signora dove lavoravo, ho trovato posto in una casa famiglia che aiutava donne in difficoltà. Ecco posso dire che quello è stato il periodo più bello della mia vita. Avevo la mia bimba che cresceva con me, vivevo in un posto tranquillo e caldo e avevo da mangiare bene e abbondante. Il lavoro l’ho lasciato perché la casa famiglia era in un’altra città. La mia piccola è arrivata a febbraio. L’ho chiamata Ioana che in Romania è un nome di buon augurio che dona grazia a chi lo porta. È stata una bimba buona sin da subito e non mi ha dato alcun fastidio. Cresceva che era un amore. A Natale però è arrivata la notizia, la casa famiglia per l’anno nuovo non avrebbe ricevuto più i fondi e io e altre quattro donne non potevamo più stare lì. Così è iniziato il mio calvario. Sono andata da alcuni amici che mi hanno ospitato per un mese, ma due bocche da sfamare erano troppe e sono dovuta andare via. Ho cercato di contattare la mia famiglia in Romania, ma la situazione lì era drammatica e non mi hanno voluta. Ho cercato di fare qualsiasi lavoro mi capitasse, ma con una bambina piccola era molto difficile trovare qualcosa. E i soldi non bastavano mai. Ioana aveva bisogno di pannolini, di stare al caldo, di mangiare regolarmente. E io non potevo darle niente. Ho anche rintracciato Constantin tramite dei parenti. Era in Germania, ma chiaramente mi ha detto di non cercarlo più. A lui di nostra figlia non importava proprio niente.
Ero da sola. Andavo a mangiare alla Caritas a pranzo e, durante il giorno, stavo dentro un centro commerciale che garantiva un ambiente caldo alla mia bambina. Di sera cercavo di dare meno fastidio possibile a qualche amico o parente che mi ospitava, ma sapevo che non sarei potuta andare avanti molto in questo modo. Sono tornata alla casa famiglia e ho cercato aiuto. La coordinatrice, Eliana, mi ha dato ospitalità e la mattina successiva abbiamo parlato a lungo insieme.
È stata lei a dirmi, per la prima volta, che potevo dare la mia piccola in affido a un’altra famiglia e permettere così alla bambina di avere una casa vera dove stare. L’idea di separarmi dalla mia Ioana era tremenda, ma vederla piangere per il freddo e per la fame era peggio. Allora ho accettato e Eliana mi ha aiutato con i servizi sociali e il Tribunale a preparare gli incartamenti. Ho tenuto la mia bambina con me ancora per cinque mesi, poi a settembre l’ho consegnata alla famiglia scelta per l’affido. Ioana ha pianto un po’ ma è andata in braccio alla donna che l’ha presa e le ha sorriso tra le lacrime. Sembrava sapesse che quella donna mi avrebbe sostituito. Sono rimasta da sola e ho trovato lavoro come badante a tempo pieno per un signore anziano. Una volta ogni quindici giorni andavo dalla mia bambina e la gioia che mi prendeva quando la vedevo così in salute, ben vestita e protetta, mi dava la carica per affrontare altri giorni di solitudine. E poi a Natale ho deciso. La famiglia che aveva in affidamento la mia Ioana poteva darle quell’amore e quella sicurezza che io non avrei mai potuto garantirle. E la mia presenza a lungo andare avrebbe iniziato a dare problemi, forse imbarazzi, alla mia piccolina. Se volevo il bene della mia bambina dovevo scomparire dalla sua vita. Così ho firmato le carte per l’adozione. Sono trascorsi altri mesi e il Tribunale ha chiuso la pratica. Ioana non è più mia figlia. I suoi nuovi genitori mi hanno promesso che da grande le racconteranno la nostra storia e, se lei vorrà, verranno da me. Quando accadrà le dirò che ho rinunciato a essere madre per farle avere la migliore vita possibile. Saperla felice e al sicuro, anche se lontano da me, è l’unica ragione che mi fa andare avanti ogni giorno.
“Echi di zampogne” di Giovanna Brunitto, pubblicata sul n. 52 di Confidenze – Numero di Natale
Il 2014 è stato quello in cui mi si è rotto tutto. Ho dovuto cambiare l’automobile per un guasto al motore, TV e computer mi hanno abbandonato per un fulmine che ha colpito il palazzo in cui vivo e la lavatrice ha smesso di perdere acqua solo quando l’ho buttata via definitivamente. E si è rotta anche la mia storia con Gianluca. Dopo cinque anni di relazione, mi sembrava giunto il momento di qualcosa di più serio di weekend fuori, cene e feste. Entrambi avevamo passato la trentina già da un po’ e sentivo l’esigenza di un rapporto più stabile, di qualcosa che potesse definirsi l’inizio di una famiglia, ma lui non era d’accordo. Mi ha augurato di trovare presto un compagno serio, ha sottolineato più volte la parola “serio”, ed è uscito dalla porta e dalla mia vita. Ho provato a chiamarlo ma non ha risposto. Qualche giorno dopo, è arrivata la notizia della brutta malattia di mia madre e mi sono dimenticata di cercarlo. Ho percorso la strada da nord a sud della penisola ogni settimana per starle vicino, ma quel male se l’è portata via in pochi mesi. La sua perdita mi ha rotto il cuore. L’anno è finito e non c’era più niente che si potesse rompere. I mesi successivi sono trascorsi quasi senza che ne avessi consapevolezza, aiutata dal mio lavoro che mi ha occupato tutti gli spazi possibili. Ho lavorato ininterrottamente senza un giorno di ferie fino a dicembre. Ero stremata e soprattutto ero sola. Mia mamma amava l’ultimo mese dell’anno e per Natale organizzava grandi feste che riunivano la famiglia. Ma quest’anno lei non c’era e quindi avevo deciso che non sarei andata a casa dai miei. L’idea di trovare la casa vuota o di essere, tra i miei fratelli, l’unica senza compagno o famiglia, mi era insopportabile. Avevo accampato all’inizio del mese delle scuse lavorative che mi avrebbero trattenuto a Milano e avevo deciso che non avrei festeggiato le festività in nessun modo. Contavo sulla complicità della città meneghina che, con la sua forte vocazione lavorativa e i ritmi frenetici, mi avrebbe di certo aiutato a dimenticare Natale e la solitudine o quanto meno a non ricordarmeli ogni minuto. Per me Natale è sempre stato l’odore dei mandarini, i rococò, il presepe e la tombola in famiglia, non certo vetrine addobbate come passerelle e luci da stadio. Quindi non correvo rischi a Milano, del mio Natale non ne avrei trovato traccia. La certezza è sfumata il giorno dopo Sant’Ambrogio. Sono rientrata a casa prima del solito per una riunione saltata all’ultimo minuto, la sera non era ancora del tutto arrivata. Mentre giravo la chiave nel portone della palazzina, ho sentito una nenia, una musica. Era il suono di una zampogna. Al centro del giardino condominiale c’erano un gruppo di quattro zampognari che suonavano la novena intorno ad una nicchia dove il custode normalmente montava un brutto presepe fatto da lui di cui andava fierissimo. Sono rimasta così colpita dal suono che mi sono avvicinata. Ad ogni passo sentivo lo stomaco contrarsi. Quel suono mi era così familiare. Quando ero piccola al mio paese gli zampognari comparivano agli inizi di dicembre e facevano il giro in tutti i portoni , suonando le canzoni tradizionali del Natale. Erano un avvenimento nuovo ed allo stesso tempo rappresentavano il perpetrarsi della tradizione. Ogni famiglia faceva loro un’offerta e tutti li tenevano in grande considerazione, come dei re magi venuti apposta per festeggiare insieme a noi il Natale. Ecco quel ricordo mi sapeva di una magia che non ricordavo più. Ero senza parole e quando hanno finito, mi sono ritrovata con le lacrime agli occhi. Mi sono vergognata di questa debolezza e senza neanche salutare ho battuto i tacchi e sono salita a casa mia. Una volta sul divano mi sono accorta che non avevo fatto neanche un’offerta. Se mia madre avesse potuto vedermi, mi avrebbe ripreso e rimproverato: “Loredana è Natale, è la Festa più importante dell’anno, offri quello che hai e vedrai che il Signore ti ricompenserà mille volte di più.” Ma la solitudine della mia casa mi ha riportato alla realtà e mi ha fatto dimenticare il calore che mi aveva invaso sentendo la musica. Il giorno dopo con umore cupissimo sono ripassata dal giardino e ho dato un occhio al presepe, spinta da una strana curiosità. Non era il solito, questo era certo. Era molto curato nei particolari, con dei pastori bellissimi che riproducevano lavori artigianali. Ero intenta a guardare ogni cosa e non mi sono accorta che alle mie spalle c’era una persona. La sua voce possente mi ha riportata alla realtà. Era un uomo sulla quarantina, alto e con dei bellissimi occhi nocciola. Si è presentato, si chiamava Andrea ed era il nuovo portiere che da un semestre lavorava nel palazzo. Aveva la passione per i presepi ed aveva chiamato gli zampognari, un gruppo di suonatori di Concorezzo in provincia di Milano che conosceva, perché senza novena non gli sembrava Natale. E poi ha parlato del suo arrivo a Milano e del suo nuovo lavoro che gli piaceva tanto. Mi ha detto anche che mi vedeva sempre da sola e spesso gli sono apparsa triste e per quel motivo non si era avvicinato prima. Davanti al caffè che ha insistito per offrirmi al bar all’angolo, finalmente ha smesso di parlare e sorridendo mi ha chiesto come mi chiamassi. Gli ho detto il mio nome e poco altro, poi sono andata di corsa al lavoro. In metropolitana mi sono ritrovata a sorridere tra me e me, come non mi capitava da tempo. Andrea mi aveva avvolto con la sua parlantina e mi aveva guardato, tra una chiacchera e l’altra, con quei suoi occhi bellissimi. Mi aveva fatto sentire bella come non mi capitava da anni. Il tutto in una manciata di minuti che non arrivavano a mezzora. Non sospettavo quella mattina che l’avrei rivisto quello stesso pomeriggio, mi stava aspettando all’entrata del portone per accompagnarmi fino all’appartamento e per strapparmi una specie di mezzo appuntamento per il giorno dopo per ascoltare insieme la novena degli zampognari. E così con quel suo modo di fare a tratti indolente, a tratti diretto e ruvido, Andrea mi ha fatto compagnia per tutto il mese. Mi ha preso il cuore così, tra una novena e l’altra, e senza quasi che io potessi opporgli resistenza. Alla vigilia di Natale è venuto da me per la cena. Abbiamo mangiato, giocato a tombola e poi siamo andati insieme alla messa di mezzanotte. Anche il resto della notte l’abbiamo trascorsa insieme. Abbiamo parlato tanto e fatto l’amore. E’ stata la notte di Natale più bella che ho avuto o forse no. Forse a pensarci bene la notte più bella sarà quella di quest’anno, perché se i tempi saranno quelli giusti, a Natale prossimo saremo io, Andrea e la nostra bambina. Ma se dovessimo aspettare ancora qualche giorno per incontrare la nostra piccola, sarà un Natale comunque meraviglioso perché come ha detto Andrea l’anno scorso, Natale è una festa che ognuno di noi si porta dentro. Non importa dove si è, con chi si è o quale brutto momento si stia attraversando, se sappiamo cercare dentro di noi, troveremo la forza e la fiducia per rinascere. Io grazie a lui, l’ho trovata.
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